Risorse per quasi 200 miliardi destinate alla previdenza complementare e poco meno di 8,5 milioni di iscritti ai fondi vigilati dalla Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione): sono solo 3,3 milioni le adesioni ai Fondi pensione contrattuali. Nell’anno della pandemia il sistema ha tenuto. In sostanza il numero di iscritti alle diverse forme di previdenza complementare è rimasto stabile. Il che, per le condizioni del sistema italiano, vuol dire poche adesioni. Ancora troppo poche.
Complice l’emergenza sanitaria e lo sguardo che si ripiega sul breve periodo, l’attenzione dei lavoratori si rivolge più ai buoni spesa (o alle polizze sanitarie integrative) piuttosto che alle risorse da aggiungere nel Fondo pensione. In questo caso viene in soccorso una recente indagine di Tecné per Up Day, che indica le preferenze dei lavoratori per il welfare integrativo aziendale: il 69,4% vorrebbe buoni spesa, il 55,8% buoni carburante, il 38% buoni pasto. Solo il 5,4% vorrebbe strumenti di previdenza integrativa.
Il vero problema è quello che si scaricherà con la fine del blocco dei licenziamenti. Un milione di posti di lavoro in meno? Un milione di versamenti contributivi in meno. A quel punto anche l’equilibrio dei Fondi e dei loro rendimenti potrebbe vacillare. A maggior ragione si impone un problema di fiscalità che deve essere affrontato per sperare in un rilancio della previdenza complementare: la questione riguarda sia il prelievo all’atto dell’adesione al Fondo pensione, sia la tassazione degli investimenti dei Fondi nell’economia reale, «nei quali ci siamo impegnati con un importante progetto di sistema a supporto delle piccole e medie imprese italiane con investimenti responsabili secondo criteri ESG e attenti all’occupazione.
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